
L’AFFIDAMENTO E MANTENIMENTO DEI FIGLI NELLA SEPARAZIONE E NEL DIVORZIO
Quando due coniugi si separano (oppure se divorziano) si pone il problema di come gestire i figli e come riorganizzare la loro vita in vista del cambiamento dell’assetto familiare.
In caso di separazione consensuale, l’affido dei figli minori è condiviso e sono i genitori stessi a decidere la loro collocazione (i figli maggiorenni possono liberamente scegliere con quale dei due genitori abitare).
In caso di separazione giudiziale, a decidere sull’affidamento e sulla collocazione, è invece il Tribunale che ovviamente tiene presente sopra ad ogni altra cosa, l’interesse del minore ed al proposito per assumere la decisione migliore per esso, vaglierà con attenzione l’istruttoria della causa ed una serie di altri elementi utili (comportamenti dei coniugi, attività lavorativa da essi svolta, motivi della separazione, ecc.). Il minore, qualora abbia compiuto i 12 anni di età, potrà essere ascoltato dal giudice affinchè esprima la sua preferenza (ovvero dica con quale genitore vorrebbe andare a vivere). La nostra legge prevede anche che anche un minore di anni 12 – se capace di discernimento -, possa essere ascoltato dal giudice per lo stesso motivo.
Di norma (salvo le eccezioni, che andremo a verificare più avanti), il Tribunale è tenuto ad applicare il criterio dell’affido condiviso, subentrato nel nostro ordinamento tramite la legge n. 54 del 2006 che ha innovato profondamente la materia sull’affidamento dei minori (in quanto in precedenza si parlava di affidamento congiunto, accezione questa con la quale si prevedeva una equa ripartizione tra i genitori dei compiti di cura ed educazione dei minori). Con detta legge è stato sancito il diritto alla bigenitorialità, inteso come diritto del minore di avere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori anche in caso di crisi familiare (criterio introdotto con il comma 2 dell’art. 155 c.c.).
Successivamente è intervenuto il decreto legislativo. n. 154 del 2013, che ha riformato l’istituto della filiazione, che pur mantenendo l’impianto della legge precedente, ha abrogato l’art. 155 c.c. (sostituendolo con l’art. 337-ter c.c.) introducendo gli articoli 337 bis e segg. c.c., che disciplinano i criteri di scelta cui deve ispirarsi il Tribunale in caso di separazione o divorzio giudiziale e per i minori nati fuori del matrimonio. L’ambito di applicazione del citato articolo 337 bis c.c. infatti riguarda “separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati al di fuori del matrimonio”.
Come abbiamo detto, il principio preferenziale da prendere primariamente in considerazione, in materia di affidamento è quello condiviso (art. 337 ter cc.) poiché il figlio “minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori … “. Nello spirito della legge infatti, entrambi i genitori – seppur separati -, dovranno continuare ad occuparsi della prole (come accadeva prima della separazione), garantendo ad essa, cura, educazione ed istruzione, mantenendo un rapporto sereno ed equilibrato ed agevolando i rapporti con le rispettive famiglie di origine.
Il Giudice quindi, valuterà la situazione ed assumerà una decisione in relazione all’affido della prole, tenendo anche nel debito conto la soluzione concertata dai genitori, esso infatti, sulla base dell’art. 337 ter, comma 3, dovrà necessariamente prendere atto degli accordi dei genitori, “purché non siano in contrasto con l’interesse superiore dei figli”. Nel caso in cui il Giudice ritenga che il regime di affido condiviso sia contrario agli interessi del minori, potrà stabilire che questi ultimi vengano affidati ad uno dei genitori, ovvero quello che verrà giudicato idoneo. La legge infatti, desidera che i giudici nel decidere tengano conto dell’esclusivo interesse morale e materiale del figlio, per consentirgli di superare nel miglior modo possibile, il trauma della frattura della propria famiglia.
In caso di affidamento condiviso i genitori dovranno esercitare la responsabilità genitoriale congiuntamente e saranno tenuti a ripartirsi equamente i compiti genitoriali. Le scelte di straordinaria amministrazione dovranno essere assunte concordemente, anche perché in caso contrario, sarà il giudice ad intervenire sulla decisione da prendere. L’art. 337 ter comma 3, inoltre stabilisce che il giudice possa concedere a ciascun genitore di esercitare la responsabilità genitoriale separatamente, ovvero consentendo loro di operare in favore dei figli le scelte riguardanti la vita quotidiana.
In tutti i casi in cui si opti per l’affidamento condiviso, sarà necessario determinare i tempi e le modalità di presenza dei figli presso ciascun genitore (questa tipologia di affidamento non esclude che si possa prevedere una prevalenza nel collocamento dei minori presso un genitore, rispetto all’altro). I giudici stabiliranno i tempi e le modalità di incontro. Se ad esempio nel corso del giudizio i coniugi hanno manifestato ragionevolezza ed equilibrio, il tribunale si limiterà a fornire loro indicazioni di massima, ed essi quindi potranno regolare i rapporti con la prole, concordandone autonomamente i dettagli. Se al contrario, i coniugi hanno messo in evidenza conflittualità, i giudici saranno costretti a stabilire nel dettaglio le modalità con le quali (giorni ed orari nei quali potrà incontrare e tenere con sé i figli) il coniuge “non collocatario” potrà incontrare i figli.
Collocamento dei figli
Diverso dall’affidamento è il collocamento dei figli. Ovvero i figli di norma (tranne nel caso in cui la casa familiare venga loro assegnata) dovranno avere una “residenza abituale o prevalente” presso uno dei due genitori (è ovvio che nel caso di affido esclusivo, il problema non si pone, in quanto il figlio andrà a risiedere presso il genitore cui è stato affidato), allo scopo di consentire loro di avere un ambiente domestico di riferimento.
Il collocamento può essere :
- prevalente nel caso in cui il minore abbia la “residenza prevalente” presso quel genitore, che è stato valutato dal giudice più idoneo a garantirgli una vita domestica serena. In tal caso il genitore in questione viene definito “collocatario”. Questa è la soluzione che viene adottata più di frequente dai tribunali, perché garantisce stabilità. Il minore avrà il diritto di incontrare il genitore” non collocatario” e di trascorrervi del tempo, sulla base delle modalità che saranno stabilite dallo stesso Tribunale
- alternato, quando il minore vive in modo alternato con ciascun genitore (ad esempio trascorre un mese con la madre presso la di lei abitazione e viceversa con il padre). Questo sistema non ha molto seguito, poichè si ritiene che il figlio possa trovare scomodo e disorientante spostarsi con frequenza da un’abitazione ad una altra, (di norma dovrebbe avere un ambiente domestico stabile e degli spazi propri nei quali studiare, riposare, giocare, ricevere gli amici).
- invariato, ovvero quando il figlio rimane a vivere all’interno della casa familiare, ove invece sono i genitori ad alternarvisi. (Ad esempio ci va ad abitare una settimana la madre e una il padre). Tramite questa soluzione il minore rimanendo a vivere nel proprio ambiente domestico, conserva le proprie abitudini e non è costretto a spostarsi. Non è però una soluzione facile per i genitori che potrebbero entrare in conflitto (ad esempio riguardo alle spese generali della abitazione).
L’Affidamento esclusivo
La nostra legislazione prevede – all’art. 337 quater c.c. -, l’affidamento esclusivo come mera ipotesi residuale, in tutti quei casi in cui l’affidamento condiviso non risponda all’interesse del minore (tanto che anche nel caso in cui sia stato già disposto un affidamento condiviso, si può chiedere la modifica del regime di affidamento stesso qualora vi sia prova che il minore possa averne pregiudizio).
I casi in cui un genitore possa domandare l’affido esclusivo sono molteplici e dovranno essere esaminati dal giudice con particolare accuratezza, in quanto non tutte le situazioni di conflittualità sono sufficienti ad avanzare tale richiesta (sono ammesse solamente quelle in cui la litigiosità fra i due genitori sia talmente elevata da procurare sicuro nocumento ad una sana crescita del figlio minore).
Circa i presupposti per la scelta di questa tipologia di affido, la giurisprudenza e la dottrina non sono del tutto concordi poiché hanno offerto una serie di soluzioni differenti. Alcuni infatti ritengono che sia la parte che richiede detto regime a dover provare che l’altro genitore ha posto in essere abuso dei propri poteri, o violazione di alcuni suoi doveri ; oppure che detto genitore sia inidoneo a gestire il figlio poiché mostra di avere delle condotte pregiudizievoli nei di lui confronti ; o anche che l’altro genitore impedisca al figlio, a seguito delle proprie errate condotte, di svolgere una vita serena.
Sulla base di tali dubbi (nonché sul buon senso), si ritiene preferibile che il giudice, in forza dei propri poteri istruttori - art. 337 octies c.c. - dovrà analiticamente giudicare la situazione onde verificare quale sia il regime di affidamento più congruo per il minore, valutando “caso per caso ciò che è contrario agli interessi del minore”.
La casistica è comunque molto varia, ad esemplificazione di ciò, possiamo indicare che può essere disposto l’affidamento esclusivo quando ci si trova dinnanzi ad :
- un genitore che non si preoccupi minimamente del figlio, disinteressandosene, sia sotto il profilo morale che economico
- un genitore che ostacola il rapporto con l’altro genitore
- un genitore che svilisce e denigra, agli occhi del figlio, la figura dell’altro genitore
- un genitore che dimostra palesemente di non voler frequentare il figlio
MANTENIMENTO DELLA PROLE
Il dovere al mantenimento dei figli è sancito dall'art. 30 della Costituzione, dagli artt. 147 e ss. c.c. (ed indirettamente anche dall’art. 315 bis, comma 1, c.c.) “che impongono ad ambedue i genitori l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli, in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”. Quindi sia in caso di separazione che di divorzio, i genitori debbono provvedere al mantenimento dei figli sulla base delle sostanze delle quali dispongono, poiché debbono loro assicurare tutto quanto necessario a soddisfare le loro esigenze di vita, mantenendo il precedente tenore. Anche con riferimento all’aspetto economico, il legislatore ha previsto che vengano fatti salvi gli accordi presi dai genitori (in tal caso la scelta preferenziale è quella del mantenimento diretto). Ove invece i genitori non siano disposti ad accordarsi (o pur avendoci provato, non siano riusciti a reperirli) sarà il Tribunale a decidere per loro, disponendo a carico di uno od entrambi, un assegno di mantenimento in favore della prole.
Il comma 4 dell’art. 337-ter c.c. ha stabilito che ciascun genitore debba provvedere al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito e così recita : “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
Detta norma quindi ha fissato i parametri ed i criteri (improntati ad un principio di proporzionalità) sui quali il giudice si dovrà basare onde stabilire un importo a titolo di mantenimento per i figli. Di conseguenza, dovrà esaminare oltre al tenore di vita, alle esigenze del figlio ed alle risorse economiche dei genitori - elementi questi che già in precedenza erano tenuti nella debita considerazione -, anche i tempi di permanenza presso ciascun genitore e la valenza dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore. Valutazioni queste ultime, del tutto innovative ed entrate a far parte della norma codicistica solo nell’anno 2013.
Ma è giusto che sia così, perché è necessario considerare se sia stata disposta una collocazione prevalente o paritaria (in questi casi, come logico “i compiti domestici e di cura dei genitori” variano), come pure deve essere valutato il tempo che realmente trascorrono i genitori con i figli e per i figli, per poter dare un valore a detto tempo !
Il criterio quindi sulla base del quale svolgere una stima, si è spostato da quello meramente reddituale (relativo alla capacità reddituale del soggetto/genitore) a quello della effettiva partecipazione alla vita dei figli, poiché la nuova normativa intende valorizzare (non più solo il reddito, le sostanze, i mezzi di sussistenza) anche la presenza affettiva dei genitori.
La corresponsione dell’assegno di mantenimento è periodica (ha cadenza mensile, il Tribunale dispone sempre che il pagamento avvenga entro e non oltre il giorno 5 di ogni mese) ma bisogna far presente che purtroppo è spesso operazione complessa riuscire concretamente a determinare la misura dell’importo dell’assegno da corrispondere, stante il fatto che molti genitori tendono ad occultare (per far dispetto ai coniugi, non curandosi dei bisogni dei figli) le loro sostanze (depositano spesso dichiarazioni dei redditi inveritiere, oppure nascondono attività svolte “in nero” non facilmente individuabili e provabili) che sfortunatamente non sempre vengono smascherate dall’intervento della polizia tributaria (cui il giudice può rivolgersi onde effettuare indagini, art. 337 ter c.c.).
MANTENIMENTO FIGLI MAGGIORENNI
L’art. 337 septies c.c. (articolo aggiunto dall'art. 55 del D. lgs. 28/12/2013 n. 154 il quale riporta, con modificazioni, il contenuto dell'art. 155 quinquies abrogato), testualmente recita : “Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto”. Ciò sta a significare che l’obbligo in capo ai genitori di mantenere i figli non cessa al compimento della loro maggiore età, ma solo quando questi ultimi abbiano raggiunto una indipendenza economica. Quindi ci troviamo dinnanzi ad un obbligo di mantenimento da parte dei genitori (artt. 30 Cost., 147, 315 bis e 337 septies c.c.) che permane oltre la maggiore età e un diritto del figlio ad essere mantenuto, fino a che, completata l’istruzione, possa avere gli adeguati strumenti per realizzare la propria indipendenza economica. Trattasi questo, di un vero e proprio diritto di solidarietà che tutela un interesse fondamentale dell’individuo a ricevere un aiuto concreto nel corso della sua formazione e crescita, per ogni esigenza di vita e di formazione. Il giudice ha il potere (discrezionale) di stabilire se ed in quale misura il figlio maggiorenne non economicamente indipendente, abbia diritto ad un assegno periodico da parte dei genitori coobbligati in solido al suo mantenimento.
La giurisprudenza sull’argomento è molta e permette di ben chiarire i termini della questione, ovvero di far capire quando detto mantenimento si possa chiedere o meno.
Con riferimento al superamento di una certa età è stato stabilito : "il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una sua dimensione di vita autonoma che lo rende, semmai, meritevole dei diritti ex art. 433 c.c. ma non può più essere trattato come 'figlio', bensì come adulto". La motivazione è basata sul criterio della autoresponsabilità del figlio maggiorenne che non può pretendere la protrazione dell'obbligo al mantenimento oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché "l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione" (Cass. n. 18076/2014; Cass. SS.UU. n. 20448/2014). Tale obbligo, secondo una pronuncia del Tribunale di Milano è, "in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee" non può protrarsi dunque "oltre la soglia dei 34 anni", età a partire dalla quale "lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non - può - più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che, da quel momento in poi, il figlio stesso possa, semmai, avanzare le pretese riconosciute all'adulto". Detto Tribunale ha anche precisato che il giudice deve orientare la propria valutazione in maniera da “escludere che la tutela della prole, sul piano giuridico, possa essere protratta oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, al di là dei quali si risolverebbe, com'è stato evidenziato in dottrina, in "forme di vero e proprio parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani".
Con riferimento all’avvenuto raggiungimento di una condizione di indipendenza economica la Cassazione - sezione VI, ordinanza 12 aprile 2016, n. 7168 -, ha statuito : che l’obbligo dei genitori di concorrere al mantenimento dei figli maggiorenni, secondo le regole dettate dagli artt. 147 e 148 cod. civ., cessa a seguito del raggiungimento, da parte di quest’ultimi, di una condizione di indipendenza economica che si verifica con la percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita ovvero quando il figlio, divenuto maggiorenne, è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza averne però tratto utile profitto per sua colpa o per sua scelta. In poche parole per far venire meno l’obbligo del mantenimento sono sufficienti un reddito o il possesso di un patrimonio atti a garantire una autosufficienza economica (Cass. n. 18/2011 e Cass. n. 27377/2013). La giurisprudenza di merito ha anche specificato che l'obbligo del genitore di concorrere al mantenimento del figlio maggiorenne può ritenersi estinto solo esclusivamente a seguito del comprovato raggiungimento da parte del figlio medesimo di un'effettiva e stabile indipendenza economica ovvero della sua dimostrata colposa inerzia nell'attuazione o prosecuzione di un valido percorso di formazione e/o studio. In argomento il Tribunale di Savona ha puntualizzato “che la percezione da parte del figlio di somme di denaro di modesta entità a seguito dell'espletamento di attività lavorative saltuarie e/o "a chiamata" non può integrare il presupposto dell'indipendenza economica, atteso che gli emolumenti sono rimessi di fatto alla determinazione unilaterale del datore di lavoro” (Tribunale Savona 27 gennaio 2016).
Con riferimento all’acquisizione di una professionalità e alla collocazione nel mondo del lavoro (adeguata alle sue aspirazioni) del figlio, la giurisprudenza, ha osservato “che, affinché venga meno l'obbligo del mantenimento, lo status di indipendenza economica del figlio può considerarsi raggiunto in presenza di un impiego tale da consentirgli un reddito corrispondente alla sua professionalità e un'appropriata collocazione nel contesto economico-sociale di riferimento, adeguata alle sue attitudini ed aspirazioni (Cass. n. 14123/2011; n. 1773/2012). Per cui se un figlio desidera iniziare un percorso di studi che gli permetta di perseguire le proprie ambiziose aspirazioni (per il raggiungimento di una migliore posizione o carriera), il genitore sarà ancora onerato del di lui mantenimento (Cass. n. 1779/2013).
Con riferimento alla interruzione dell’obbligo di mantenimento, la giurisprudenza ritiene pacifico che l’obbligo dei genitori viene a cadere a causa delle errate condotte del figlio. Ovvero i genitori saranno tenuti al mantenimento sino a quando non verrà provato che il mancato raggiungimento dell'autosufficienza economica, sia stato causato dalla negligenza del figlio e derivi da causa ad esso imputabile. Quindi l'esonero da parte dei genitori al versamento dell'assegno avverrà in tutti i casi in cui il figlio maggiorenne : posto in concreto nelle condizioni di raggiungere l'autonomia economica dai genitori, abbia opposto rifiuto ingiustificato alle opportunità di lavoro offerte (Cass. n. 1830/2011; Cass. n. 7970/2013), ovvero abbia dimostrato colpevole inerzia prorogando il percorso di studi senza alcun rendimento (nella fattispecie la Corte, con sentenza n. 1585/2014, ha escluso il diritto al mantenimento del figlio ventottenne che aveva iniziato ad espletare attività lavorativa, ancorché saltuaria, e non frequentava con profitto il corso di laurea a cui risultava formalmente iscritto da più di otto anni).
Ultimamente la giurisprudenza ha sancito anche che “Il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne cessa non solo quando il genitore onerato dia prova che il figlio abbia raggiunto l'autosufficienza economica, ma anche quando lo stesso genitore provi che il figlio, pur posto nelle condizioni di addivenire ad una autonomia economica, non ne abbia tratto profitto, sottraendosi volontariamente allo svolgimento di una attività lavorativa adeguata e corrispondente alla professionalità acquisita” (Cass. civ., sez. I, 1 febbraio 2016, n. 1858).